Quando noto qualcosa che non va in un evento già più volte visitato ed esplorato, la strada migliore da percorrere è andare a rileggere quello che è stato, per capire dove si è perso qualcosa, e forse una vera e propria direzione da tornare a prendere. Questo quanto posso pensare al riguardo della Festa della Ghironda 2017, evento pragelatese tra i più attesi dell’anno, partito con ottime intenzioni ma dal risultato… non vorrei usare quella parola. Ma credo che lo farò: commerciale.
Risfogliando la storia dell’evento sono chiare le sue fondamenta, radicate come giusto nella tradizione e nella musica. Si tratta in fondo di un momento per far conoscere a tutti questo particolare tipo di sonorità, spiegando funzioni dello strumento ghironda ed esplorandone le possibili declinazioni. Tutto questo però in un aura di festa, tra giochi per i bambini, mercatini locali e spazi per la gastronomia locale. Un tutt’uno che lo rendeva evento sempre molto carino e dalla impronta di quel bel sano folk che fa bene allo spirito.
Quest’anno invece la prima cosa che è saltata all’occhio è la chiusura, sia degli ambienti che delle attività. Magari c’è stata paura di giornate piovose, ma in questa edizione buona parte del cloux dell’evento è stato racchiuso in un unico capannone. Ricorderete come lo scorso anno vedevo lo spostamento di balli e suoni in strutture simili come magari buono sul piano pratico, ma causante una perdita di atmosfera e di suono. Ora però si è al passo successivo in negativo: i concerti serali vengono nuovamente “capannonati”, ma chiudendo la struttura da quasi tutti i lati e permettendo un ingresso solo a pagamento!
Ora è facile essere il visitatore che vuole assistere a qualcosa gratuitamente a tutti i costi, quindi mi limito però ad interrogarmi, e di molto, sul cosa abbia portato ad una simile decisione: c’erano pochi fondi a disposizione facendo rischiare una non andata in porto della manifestazione? Anche così fosse, tariffe non propriamente basse hanno portato a questa singolare situazione serale: persone, pure in quantità, che camminavano lungo il centro di Pragelato, arrivavano alla Festa, scoprivano l’obbligo di biglietto per assistere da vicino alle musiche o per ballare, e riprendevano la via continuando in altro modo la passeggiata o semplicemente stanziandosi attorno al luogo del concerto. Singolare esempio poi quello di un gruppetto di persone, anche in parte anziane, che si è posizionato nel retro del gazebone, appoggiato alla bene e meglio su alcune transenne, per riuscire a vedere in qualche modo il concerto dal retropalco.
Di nuovo: il bello di una festa così era potere passeggiare anche solo nella zona scoprendo magari un gruppo nuovo, od anche solo qualche ragazzo appoggiato ad un recinto improvvisare due note con lo strumento protagonista, invece anche nella domenica le jam sessions, questa volta ad ingresso libero, si sono richiuse dentro lo spazio del capannone, limitando lì i momenti musicali, perdipiù in parte stretti sul piano ballo dai tavoli per pranzi e cene posti nel retro. Pareva veramente di assistere più ad una festa di paese che a quella per uno strumento (paragone poi non così ardito, dato che l’organizzazione spaziale è stata pressochè identica a quella della Festa di Abbadia di quest’anno).
Scarso successo anche per il gioco degli Escarton gigante, che se nella doppia giornata dello scorso anno aveva mosso numerose curiosità, è stato poco pubblicizzato in loco od in ogni caso limitandosi al solo pomeriggio di sabato ha attratto molti visitatori in meno; forse anche a causa di un essere decentrato da una festa appunto molto più chiusa pure nel senso di compattezza: gli stage si sono svolti anche in qualche altro luogo come il Museo del Costume, ma tra spazio bar e fiondone gigante umano, l’attenzione si è spostata praticamente solo su Casa Pragelato, tanto che gente si è chiesta se tale evento ludico non fosse direttamente lì.
Altri momenti rimangono in ogni caso di qualità, questo è bene dirlo: resta il mercatino tradizionale, seppur poco più stringato, i prodotti tipici da assaggiare sia come carni che con il pilot, od i gofri da casetta apposita. I sopra detti stage per imparare a suonare la ghironda; i balli lasciati liberi quantomeno nel pomeriggio della domenica. Però appunto sono accezioni di un evento, non il suo centro, non il suo cuore più interno, che è quello che si è un po’ perso con tali scelte.
A mio avviso dunque si tratta di dovere assolutamente recuperare quel tipo di approccio, quel tipo di accoglienza montana, altrimenti già diversi nuovi visitatori saranno tornati a casa pensando “ah però che prezzi tra pagare e vedere i musicisti, se ci ritorno, ci passo di lato e ascolto quel che poco esce dalle tele del capannone”.
Se poi ci fossero motivi strettamente economici di sostentamento legati a queste scelte a mio avviso controproducenti, secondo me una maggiore libertà avrebbe portato le persone stesse a lasciare qualche contributo volontario di tasca loro, per portare avanti qualcosa di bello, mentre così a perderci è pure il fattore originalità.
Speriamo quindi che si ritorni un po’ di più a quando la musica davvero cercava di conquistare ogni angolo di questi spazi, e nel frattempo vi lascio a qualche immagine dell’evento.